Manuale di autodifesa per il tifoso di una piccola

Come si concilia l’amore per una squadra con la consapevolezza di dover assistere alla partenza dei tuoi idoli a ogni finestra di mercato?

Amali, ma con moderazione. E ricordati che la maglia è per sempre, i giocatori, quelli no. Sono cose che un tifoso del Cagliari impara in fretta, in tenerissima età, i primi insegnamenti che gli vengono tramandati dal padre, dalla madre o l’amico che lo accompagna per le prime volte allo stadio. È questione di sopravvivenza, quando il cuore batte per una piccola squadra. Non ci si può permettere di affezionarsi troppo ai giocatori, bisogna fare il callo all’idea che, presto o tardi (più spesso la prima delle due opzioni), i migliori andranno via, a cercare altri lidi.

Gli ultrà hanno persino smesso di dedicare cori ai singoli giocatori, da tempo immemore. L’ultimo forse fu Gianfranco Matteoli, “arroddugò”, gli cantavano, che letteralmente non si può tradurre su una rivista rispettabile come questa ma che dalle nostre parti esprime un sentimento misto tra lo stupore e l’assoluta riverenza. Poi basta. Nemmeno Daniele Conti, uno che Cagliari l’ha scelta per sempre, restandoci pure quando sarebbe potuto andar via per guadagnare qualche soldo in più, ha avuto un coro tutto suo. L’unica eccezione l’hanno fatta per Andrea Cossu. “Uno di noi”, gli cantavano, non perché fosse un buon giocatore o sputasse sangue per il Cagliari, né perché a Cagliari ci è nato e cresciuto. No, proprio perché lui è uno di loro, nel senso che prima le partite le seguiva dalla curva, ogni volta che poteva, anche quando giocava “nel Continente”, e il logo degli Sconvolts se l’è fatto pure tatuare sul polpaccio.

Ora, al di là dell’estremismo dell’ultrà, quella di non legarsi emotivamente troppo a un calciatore non è poi una brutta idea. E mica perché sono “mercenari”, tanto per rispolverare un altro leit motiv da curva, ma perché sono professionisti. E i professionisti si muovono, prendono le decisioni migliori per la loro carriera, firmano i contratti che li renderanno più ricchi, scelgono le squadre che verosimilmente riempiranno la loro bacheca personale. Lo farà anche Nicolò Barella, nato a Cagliari, cresciuto a Cagliari e nel Cagliari, fidanzato e poi sposato a Cagliari con una ragazza di Cagliari, padre di due figlie nate a Cagliari. Lo farà semplicemente perché è la cosa migliore da fare.

Anche io l’ho fatto, anni fa. Ho lasciato Cagliari per trasferirmi a Milano, solo che io faccio il giornalista e nessuno mi chiamerebbe mai mercenario, Barella fa il calciatore e sul suo contratto ci sono parecchi zeri in più di quelli che si possono incontrare sul mio conto in banca. Nicolò lo abbiamo amato, perché è “uno di noi”. Di tutti noi, non solo degli Sconvolts.

È un ragazzo che coccolavamo quando giocava in Primavera e qualcuno lo paragonava a Steven Gerrard. Lo abbiamo visto crescere, esordire in prima squadra, segnare il primo gol, giocare la prima partita con la maglia della Nazionale. Nell’ultimo anno l’abbiamo visto esultare più in azzurro che in rossoblù, e forse anche questo dovrebbe farci capire che Nico è fatto per palcoscenici diversi, che più si alza il livello dei compagni, più si trova a suo agio e diventa efficace. Che a Cagliari, in poche parole, Barella ha fatto il suo tempo e comincia a starci stretto. E noi ce ne dobbiamo fare una ragione.

Il mio primo trauma da abbandono calcistico l’ho vissuto a 12 anni, quando Luis Oliveira passò alla Fiorentina. Fu lì che capii davvero che non puoi affidare il tuo cuore a un calciatore. Lulù mi faceva impazzire, il modo in cui correva, come dribblava gli avversari e calciava a rete, persino come simulava. La sua è stata la prima maglia che ho voluto e non ho mai ottenuto. Mi era stata promessa da un giornalista piuttosto conosciuto nel panorama locale, uno che conduceva dei programmi alla televisione. Era amico di mio zio, venne a casa e dopo una breve chiacchierata in cui gli confidai il mio amore per Lulù mi disse che mi avrebbe procurato la sua maglia.

Ci credetti perché volevo crederci, ma quella maglia non arrivò mai, in compenso mio padre portò me e mia sorella fuori dal Sant’Elia, ad aspettare i giocatori dopo l’allenamento, e Oliveira mi firmò un autografo. Poi, in un giorno dell’estate del 1996 se ne andò via, abbandonando me, tutti i tifosi del Cagliari e la Sardegna intera che l’aveva accolto e dove aveva incontrato la moglie, una ragazza di Muravera. Così capii che i calciatori fanno così, è normale e in un certo senso anche giusto, e da quel momento non soffrii più per nessun addio.

Non è vero, mento. Perché se è vero che ho superato indenne e sostanzialmente indifferente i trasferimenti di Roberto Muzzi all’Udinese, di Fabian O’Neill alla Juventus, di Alessandro Matri sempre alla Juve (maledetta Juve!) e di Radja Nainggolan alla Roma, ce n’è stato uno, almeno uno, che in realtà mi ha scosso non poco. Quando David Suazo passò all’Inter, nell’estate del 2007, stavo per compiere 23 anni, mi ero già laureato alla triennale, si era già conclusa la mia prima relazione lunga. Ero abbastanza grande e maturo, insomma, per aver appreso la prima regola del tifoso di una piccola squadra, quella con cui si apre questo articolo.

Eppure per David mi lasciai coinvolgere emotivamente, lui era diverso. Lo chiamavo per nome e avevo persino scoperto, in ritardo, che avrei potuto conoscerlo, magari diventarci persino amico, dal momento che abitava al piano sopra la casa della mia ragazza dell’epoca nel primo periodo della nostra storia. Lei però aveva deciso di dirmelo quando lui aveva già traslocato per andare a vivere al Quartiere del Sole, a pochi passi dal Poetto, e io, che ho superato la rottura e ho trasformato lei nella mia migliore amica, ancora oggi non so come ho fatto a perdonarglielo.

Ora, quando David andò via, piangendo davanti al presidente Cellino perché accettasse l’offerta dell’Inter a cui si era promesso e non quella del Milan che cercava di rubarlo ai cugini, decisi di scrivergli una lettera aperta. All’epoca collaboravo (gratuitamente, si intende) con un sito romano in cui facevano la gavetta alcuni colleghi diventati decisamente più famosi di me, e a quel sito affidai le mie parole. Sapevo che David difficilmente avrebbe letto erlupacchiotto.it, che per chi chiamava da fuori Roma era noto come informazionesportiva.it, così decisi di stampare la lettera e portargliela a casa. Quella nuova, non quella dove viveva l’ex che mi aveva rivelato troppo tardi l’identità del suo vicino famoso.

Nella mia testa mi ero costruito un’immagine piuttosto chiara di Suazo, un bravo ragazzo disponibile e gentile, così oltre all’articolo stampai un altro foglio in cui mi presentavo e gli lasciavo i miei recapiti, nella speranza vana che potesse rispondermi. Per una settimana circa, quando squillava il telefono e appariva un numero non registrato, pensavo potesse essere lui e diventavo lo zimbello dei miei amici. In particolar modo della mia ex, sì, la stessa che non mi fece mai conoscere Suazo.

Poi, un giorno, il postino mi consegnò un pacco con dentro una maglietta rossoblù, il 9 stampato sulla schiena, il nome di Suazo sulle spalle e una dedica scritta a pennarello. Ma la cosa più bella, dentro quel pacco, era un semplice foglio di carta scritto a mano, nell’italiano un po’ zoppicante ma estremamente sincero che solo un ragazzo di San Pedro Sula poteva partorire. David aveva letto le mie parole, le aveva apprezzate, mi stava ringraziando e dimostrando che non avevo investito inutilmente i miei sentimenti su di lui, che avevo fatto bene ad affezionarmi violando la regola aurea di ogni tifoso del Cagliari.

Non ci sarà più un altro David per me. Il mio cuore ha smesso di cantare cori riservati ai singoli giocatori. Ora c’è la maglia, una passione fulminante per la maglia che da quando ho lasciato la Sardegna si è fatta ancora più grande, ma allo stesso tempo una sorta di cinismo nei confronti di chi la indossa. Non li chiamo mercenari, li rispetto e qualche volta li stimo pure. Fremo per le loro giocate e impazzisco per i loro gol, ma non mi innamoro più.

Ho sviluppato una sorta di meccanismo di autodifesa che funziona alla perfezione, mi sono persino trasformato in un tifoso-contabile. Così, quando Barella segna un gol in Nazionale, gioisco un po’ per lui e un po’ perché penso che il valore del suo cartellino aumenterà ancora, che si scatenerà un’asta pazzesca, che per l’Inter non sarà poi così semplice portarcelo via alle loro condizioni. Vorrei poter dire che lo faccio perché penso a come quei soldi verranno reinvestiti sul mercato dal presidente Giulini, ma in realtà è soltanto l’orgoglio di poter pensare che stavolta, almeno stavolta, a comandare non saranno loro.

No, stavolta il prezzo lo facciamo noi. Non riusciamo a batterli sul campo, non finiremo l’anno davanti a loro come accadeva 50 anni fa, non li metteremo in crisi in una semifinale europea come all’inizio degli Anni 90, ma almeno sul prezzo di Barella vinceremo noi. Questo è tutto quello che ci resta: se non possiamo nemmeno affezionarci ai nostri giocatori, almeno che ce li paghino bene. Per 50 milioni Nicolò può partire, 50, non uno di meno. E vi promettiamo che non piangeremo.

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